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  • Nella Terra dei Ferri della Speranza

    Beaumont sur Mer Aprile 2015

    Nella terra della Speranza
    L’Italia non è più  un Paese solo per ricchi ; non lo è più neanche per gli architetti. Il Cnappc (Consiglio  Nazionale degli Architetti  Pianificatori, Paesaggisti  e Conservatori) denuncia  redditi medi da ‘in capienti’, senza peraltro avere alcuna garanzia ‘sindacale’ né cassa integrazione né bonus statali; debiti con le banche per quasi la metà dei progettisti italiani che nessuno paga, considerato che i giorni necessari per ottenere un pagamento da parte della Pubblica Amministrazione sono oltre 218, quelli da parte delle imprese 172 e, dei privati, 98. Se per i giovani far architettura in Italia è un sogno, paragonabile a quello degli aspiranti musicisti o attori, nel Meridione è sicuramente molto  più complicato.  In Calabria, terra dei “ferri della speranza”,  le armature dei pilastri che sbucano dai solai e si stagliano al cielo come se volessero aggrapparvisi, sono diventati  l’emblema del “non-finito” che caratterizza un po’ tutto il Meridione. Un costume ampiamente diffuso che dagli anni ‘70 ha trovato cittadinanza ovunque, salvo rare, rarissime eccezioni. Riuscire a vivere o sopravvivere di architettura in Calabria, è quasi impossibile. I problemi sono tanti e noti da molto tempo, ed il futuro appare incerto e nero. Chi vuole far l’architetto deve avere ben chiaro in mente  che ad attenderlo c’è un cammino arduo e che bisogna gioire di ogni piccolo e insignificante traguardo. L’economia stagnante della Calabria  rende difficile trovare clienti, ed a questo s’aggiunge il sovrannumero dell’offerta di professionisti del settore edilizio e la saturazione del mercato, con l’abnorme realizzazione di piani di lottizzazioni, dalle casette tutte uguali con spioventi in calcestruzzo. Ricordo  come Leon Battista Alberti  definiva il mestiere di architetto : “ Architettore chiamerò io colui, il quale saprà con certa, e maravigliosa ragione, e regola, sì con la mente, e con lo animo divisare; sì con la opera recare a fine tutte quelle cose, le quali mediante movimenti dei pesi, congiungimenti, e ammassamenti di corpi, si possono con gran dignità accomodare benissimo all’uso de gli homini”. Non si possono  perseguire in un progetto i consensi di tutti indiscriminatamente. Fare l’architetto è condurre una continua battaglia.  I “cattivi” sono tanti quanti i fattori che hanno reso il mestiere di architetto un’arte contaminata: i quattrini, il potere, l’urgenza, le complicazioni, ma anche le radici, l’innovazione, la natura, i bisogni della gente, che dovrebbero essere il lato più bello, sano e autentico della vita. Questi sono i limiti di questo mestiere. Il racconto del tempo, della memoria, della natura e del corpo fuso con il desiderio di trasformare la faccia del mondo. La costruzione degli oggetti mescola il tempo nello spazio. Lo spazio che ci ospita ci fa dimenticare il tempo, ogni spazio è memoria e futuro. Il tempo quotidiano, della natura e degli anni che verranno sono dentro lo spazio così come “l’oblio – scrisse Jorge Luis Borges – è una delle forme della memoria, il suo remoto sottosuolo, rovescio segreto della medaglia“. L’architettura moderna è prevalentemente luogo pubblico, costruzione di città, luogo di civiltà e di incontri, quindi dovrebbe rappresentare un avamposto contro la barbarie. La curiosità e la radice umanistica della bellezza sostengono e reggono il tutto, le città ma anche gli edifici. Quella stessa bellezza che rischia continuamente di divenire  un’idea inarrivabile. L’architettura ha una doppia natura, una autonoma e l’altra eteronoma. Nel primo caso essa è “poesia” perché il progettista, come il poeta, asseconda le sue emozioni, le sensazioni, le passioni; nel secondo caso essa ricorre alle altre scienze per essere compresa.
    È un’idea che sbarcò sulle coste del Mar Ionio dove: “ Arrivarono i Greci e non distrussero…la vacca di Vitella. Immediatamente la posero sotto la protezione di Hera, che così divenne Hera Lacinia. Cambiò il nome della Patrona, cambiò lo stile architettonico del tempio, ma allo stesso suggestivo posto rimase lo stesso simbolo”.   Tutto questo, gran parte degli Archi & Tetti calabresi lo ignorano ed ecco perché, a distanza di millenni nonostante il “titolo” di cui si fregiano, nonostante la loro abilità artistica, sono nella realtà solo  dei  disegnatori per l’edilizia e passa-carte. Lo fanno per un misero stipendio mensile, meno di quello di un impiegato di commercio non particolarmente capace, si mettono al servizio di imprenditori, di costruttori e di altri Archi & Tetti, ritenendolo l’unico sistema per poi mettersi in proprio. Anche l’orario di lavoro è quello dei lavoratori del commercio. È indifferente a questi “archi & tetti” che le loro opinioni artistiche concordino o meno con quelle dei loro datori di lavoro. Anzi, la maggior parte di loro non ne ha affatto. Dicono sempre di si. Ma quando si ritrovano coi loro colleghi di fede prendono bellamente in giro il loro capo – ecco come ci si comporta in termini mercantili già fra Archi & Tetti – e credono di fare chissà che cosa quando si scagliano contro le vecchie usanze. Il giorno dopo, alle 9  precise, sono già di nuovo freschi al lavoro per le prossime 10 ore.  Questi appena descritti sono i cosiddetti “fortunati” rimasti a lavorare nella Terra degli speranzosi ferri . In questo luogo riusciranno forse a realizzare un solo progetto e sarà quello della propria “villetta” in collina dove crescere la prole. Progetto che chiederanno di firmarlo a qualche amico “collega” che ha sostenuto gli esami per l’iscrizione all’Ordine e paga le tasse annuali. Sembrano non avere più la consapevolezza che la sola proporzione di un muro può dare all’animo umano la stessa emozione di gioia artistica, lo stesso turbamento  segreto e profondo di un capolavoro di Caravaggio, Rembrandt o di Picasso.  Poi ci sono, e sono la maggioranza, quelli che si sono laureati in Architettura o in qualsiasi altra facoltà universitaria. Questi, che, sono stati cementificati insieme ai ferri dai loro papà e mammà i quali hanno investito certamente non sulle aspirazioni e sogni dei  figli. I neo laureati torneranno al paesello a realizzare i sogni propri e dei genitori, andranno ad insegnare, ad occupare un posto negli Uffici della Regione o altri enti pubblici, negli uffici tecnici dei Comuni, negli uffici catastali  e quant’altro.

    Son tornati in Calabria , la capitale mondiale del provvisorio e non finito.  Attraversandola da Nord a Sud e da Est a Ovest, si possono notare foreste  vergini di ferri e piloni sopra le case non finite. Logicamente, questa anarchia edilizia genera ombre e abbandoni. Umberto Eco, anche se in un ambito diverso (quello semiotico) aveva teorizzato una cosa simile in un suo testo del 1962, “Opera aperta. Il concetto di “opera aperta” venne proposto per la prima volta da Eco in una comunicazione tenuta al XII Congresso Internazionale di Filosofia a Venezia nel 1958.  Eco affermava, che se l’autore dà all’opera il significato A, mentre il lettore  o chi la vede vi scorge il significato Z, allora Z è il vero significato dell’opera. Qualsiasi opera è “aperta”, appunto, a tante interpretazioni quanti sono gli interpretanti. Il guaio, però, è che questa teoria per quanto sia molto affascinante, perché con la sua anarchia è in grado di titillare le corde emotive più recondite dell’animo umano, è carica di molteplici contraddizioni e punti oscuri, perché non spiega nulla, e si limita a presupporre e a dare per scontate cose che non lo sono affatto rispetto alle case incompiute e ai loro ferri.

    Il non finito fa parte del paesaggio calabrese e non va giudicato solo negativamente. E’ anche il segno di un popolo che pensa ai propri figli, e non ha ancora bruciato il futuro. Queste case in divenire, a volte,  simili a spettri hanno già trovato una funzione, ospitando tappe di sacre processioni ,comizi e manifesti elettorali. C’è poi il non finito della malavita locale, ma quella è un’altra storia. In Calabria quello che conta non è il loro messaggio ma la casa (ovviamente non finita).  Evidentemente, l’essere meridionali è uno stato mentale che travalica le singole regioni. Quello che conta è costruire. Ma non un piano o due (zona giorno e zona notte), almeno tre o quattro, a seconda del numero dei figli! Così sorgono questi quasi palazzi, molti dei quali rimangono con le semplici strutture verticali ed orizzontali, senza tamponatura esterna e senza ovviamente nè tetto nè facciata. Famiglie che hanno dilapidato patrimoni per “fabbricare” e lasciare poi all’azione corrosiva degli agenti atmosferici il “frutto” dei loro sacrifici. Centinaia di famiglie. Centinaia di migliaia di euro e mutui ventennali che hanno contribuito a dissanguare la già flebile economia e a ridurre alla stagnazione l’iniziativa privata. Se i milioni investiti in cemento e mattoni, fossero stati investiti nell’avvenire dei propri figli e nelle loro ambizioni oppure nella creazione di imprese familiari e piccole attività produttive legate ai prodotti locali ed all’artigianato, oggi avremmo sicuramente un paesaggio meno agghiacciante ed un ben diverso indice di ricchezza ed occupazione. Dopo anni i ferri della speranza, purtroppo si tramutano in realtà. L’appartamento sopra quello dei genitori sarà l’ alcova dei neo laureati e nuovi ferri della speranza sbocceranno sul tetto dei loro appartamenti al secondo piano. Il laureato diventerà un notabile ed insieme alla moglie e a qualche figlio passeggerà, sul corso centrale del paese, dove potrà esporre il proprio panciotto del benessere .

    Ed ecco, infine, la residua minoranza che vorrà a tutti i costi fare il mestiere di architetto, fisico ecc. Questo sparuto gruppetto una mattina si sveglierà, dal sogno di esser nato in un mondo in cui “ gli Dei non si vergognavano di essere uomini ed i filosofi, gli artisti,…di essere Dei”, metterà insieme della roba nel proprio trolley, prenderà il proprio portatile e si avvierà all’aeroporto. Destinazione: Cina, Malesia, Australia, Nuova Zelanda, USA, Canada. A questi pochi ma “diversi” non mancherà il coraggio. Non si lasceranno spaventare dalle barriere che si troveranno davanti e che aumenteranno man mano che si allontaneranno da “casa”. Non si arrenderanno. Non perderanno lo stimolo per crescere, per andare avanti e dimenticare la terra degli speranzosi ferri  e ricominciare a pensare  alla bellezza dell’ architettura che non sarà altro che, ricordando una analoga definizione di Stendhal della bellezza, “una promessa di felicità”. In questo nostro Medio Evo il neo architetto si porrà la questione del nuovo come necessità ineliminabile dell’ Architettura. In questo millennio avrà ancora il gusto delle arti che tuttavia sembra aver perduto il dono di produrre “bellezza attraverso le pietre, il misterioso segreto della seduzione attraverso le linee il senso della grazia nei monumenti”. Per lui/lei, la funzionalità, la stabilità e l’economicità degli edifici non saranno considerati dei fini ma dei semplici mezzi per arrivare alla bellezza intesa come il più alto dei contributi che l’Architettore potrà dare alla questione sociale dei Paesi che contribuirà a formare. Passeranno gli anni e poi, un bel giorno, tornando in Calabria, scuoteranno la testa, lungo il tragitto, e per tutta la durata del ritorno a casa, tra una nota dei mitici “Doors” e un’altra, riconosceranno una speciale  architettura, a loro familiare, case tirate su appena possibile, con quegli stessi ferri della speranza sul soffitto. In quella stessa realtà incompleta, sarà facile notare le palme seccate dal punteruolo rosso, tristi e smagrite vicino ad una casa ancora da completare. Gli speranzosi ferri in bella vista supereranno in altezza la palma vicina.  Non sfuggiranno ai loro occhi gli spettacolari punti di fuga convergenti verso il mare di Ulisse e anfratti bagnati di azzurro o verso terrapieni con quattro pilastri che un giorno reggeranno la casa del figlio o figlia . Case completate al pian terreno per dare la parvenza di “casa finita” per evitare il “fermo lavori” o l’inesistente rischio di abbattimento di queste “opere aperte”.

    Gigino Adriano Pellegrini & G el Tarik

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